Gli ultimi decenni hanno visto un incremento deciso del consumo di farmaci antidepressivi.
Statistiche approssimative calcolano in misura diversa i soggetti depressi (si andrebbe da 1,5 a 5 milioni di individui in Italia) ma il fattore interessante é, più che la quantità di sofferenti, il progressivo aumento del loro numero. Una ricerca della “London School of Economics and Political Science” rileva come l’uso della fluoxetina, l’antidepressivo più comune, aumenti in Europa, dal 1995, del 20% ogni anno. Essendo la depressione una malattia “sociale” ciò deve costituire un allarme riguardo alle condizioni attuali (e tendenzialmente future) della convivenza civile.
La depressione ha un meccanismo biochimico, come tutte le patologie (e tutte le attività) del sistema nervoso centrale: in particolare si osserva una diminuzione di Dopamina, Serotonina e Noradrenalina, molecole che (insieme a molte altre) assicurano lo scambio di informazioni fra le cellule nervose; però mentre una patologia come la schizofrenia sembra coinvolgere soltanto meccanismi biologici (la percentuale di individui afflitti dal male è la stessa nelle civiltà industriali e presso le popolazioni indigene delle foreste amazzoniche) la depressione é definibile come una malattia “sociale” nella quale quindi ha rilevanza l’azione scatenante di una causa esterna, e ciò é dimostrato dalla variabilità geografica e temporale della patologia.
Ai fini della nostra teoria tralasciamo i traumi a carattere episodico (lutti, abbandoni, perdita del lavoro, considerabili come numericamente costanti nella popolazione, con qualche eccezione per i recenti problemi economici di limitate aree europee) per considerare quelle cause che presentano un aumento di incidenza sull’equilibrio psicologico della popolazione e determinano l’incremento del consumo di antidepressivi.
Stimoli all’insorgenza non traumatica della depressione sono: la percezione di inadeguatezza, la delusione per le proprie condizioni esistenziali, un sentimento di insoddisfazione, ma anche la sensazione di non aver ottenuto dalla vita secondo i propri meriti e le proprie capacità;
quest’ultimo stato d’animo denuncia a volte una componente di presunzione che può sorprendere in una patologia che invece fa apparire dimessi e dolenti.
Quindi incidono le aspettative sempre maggiori, i modelli sociali sempre più ricchi e difficili da raggiungere ma che sembrano vicinissimi e vengono promossi dagli apparati pubblicitari e propagandistici come acquisibili da chiunque sia in sintonia con il mondo moderno, in un modello ideale che comporta una sempre maggiore percentuale di fallimenti percepiti.
A questo punto si apre una forbice:
- c’é la reazione autoaccusatoria, in cui non si usa indulgenza per se stessi e ci si accolla la colpa del fallimento (vale la pena ripeterlo: molto spesso c’é solo la percezione di un fallimento);
- oppure, come dicevamo, tale sensazione si accompagna ad una grande considerazione per i propri mezzi e per le proprie capacità, per cui la percezione di fallimento si accompagna a paranoie complottistiche o semplicemente alla teorizzazione di una fase di fortuna avversa.
Secondo questa percezione del problema a separare il paziente dal successo non sono solo l’invidia e gli ostacoli frapposti da persone gelose, ma soprattutto la fortuna; gli individui che così si sentono in credito con la sorte vedono nel gioco d’azzardo l’arena in cui sfidare la fortuna in una lotta mortale, una soluzione che non risolverà di certo il problema di fondo, ma costituirà un inequivocabile segnale che la fortuna é girata, che la malasorte, unico ostacolo alla realizzazione del proprio io, é battuta, che l’ostacolo é rimosso e il futuro finalmente è propizio…
Il tutto, quando cominceranno a vincere.