Piazza della Repubblica. Una fresca e soleggiata mattina d’autunno. Transenne in alluminio, poste a delimitare i lavori di rifacimento del pavimento in basalto, preannunciano l’imminente trasloco dello storico mercato. Non desistono, tuttavia, gli ultimi mercanti della piazza.
“Ehuuu, i patane bellissime!” urla il fruttivendolo.
“Signò, venite, che tenghe u megghie pesce du munne!” gli fa eco il pescivendolo.
Mi aggiro tra i banchi, attratto dai suoni, colori e odori diffusi da quel luogo, al tempo stesso unico e familiare. Un’anziana signora si avvicina risoluta al banco della verdura, ordinando: “damme nu chine de tanne cicorie, ma m’è capà schitte i puntenelle!”
“Si, e cché cchiù?” le risponde il solerte mercante.
Scorro rapido la filologia e mi chiedo da quale lingua derivi “schitte” mentre continuo ad osservare estatico la ritualità di quel popolo dimezzato.
In quel mentre un’avvenente concittadina percorre via Blanch, protendendosi verso la piazza.
“Catafréche!” – commenta l’attento fruttivendolo – cui non sfuggono quei quadricipiti in movimento sotto la minigonna, resi ancor più tonici dal clima dicembrino.
Qualche metro più in là un venditore di intimo si fa incontro alla donna: “Bella, i vù nu pare de collante coprente?”
Il diniego di lei si traduce non in laconico cenno, bensì in movimento voluttuoso, sinuosa prosecuzione del passo.
Il pensiero di quelle parole tramandate nei secoli mi accompagna ai margini della piazza dove, ad un tratto, resto rapito da un volto segnato dal tempo, a stento visibile attraverso l’opaco vetro del sottano (locale al piano terra, terraneo – n.d.r.). Uno sguardo imperscrutabile dilata i miei secondi.
Inaspettatamente quella porta si apre e il volto dell’anziano signore si fa ben più definito nel chiedermi: “Che ghè?”.
Provo a concentrarmi su improbabili risposte, tuttavia i ritmi incalzanti della piazza fanno sì che quell’interrogativo resti per sempre sospeso. L’anziana signora con il suo carico di puntarelle di cicoria mi passa accanto e il coevo signore, distogliendo il suo sguardo dal mio, ne segue il movimento ricurvo e a bassa voce sentenzia: “Efésse e cché cuccuuaje…..”.
Parole che si espandono nella profondità della mia mente, mentre osservo la piazza intera. Ne ammiro la forma irregolare, le sue dimore settecentesche e indugio sui suoi angoli acuti, custodi di chissà quante storie e quali segreti.
Nella freschezza del mattino così si disperdono i miei pensieri, osservando mercanti e avventori rinnovare antichi rituali e, con un linguaggio scolpito nelle pietre, essere inconsapevoli attori di una piazza che resiste al volgere degli eventi.
Ho scritto questo resoconto un anno fa. Oggi l’ho fatto leggere alla mia compagna Barbara, di chiare e lontane origini bellunesi, con la quale ho da poco intrapreso un percorso di reciproca conoscenza dialettale.
“Non ci capisco una tega”, è stato il suo primo commento.
“Calma“ – le dico – “ciascun dialetto possiede la forza dell’impenetrabilità, ragione stessa della sua sopravvivenza”.
Tuttavia, non mi sottraggo al tentativo di renderle più fruibile il nostro idioma.
- Ehuuu, i patane bellissime!: l’abilità di un mercante risiede nella sua capacità di attirare l’attenzione in maniera sintetica e facilmente intuibile. Qui si esprime efficacemente attraverso un semplice sostantivo, seguito da un aggettivo: patate bellissime. La verticalità sonora del richiamo “Ehuuuu”dona considerevole enfasi al messaggio promozionale.
- Signò, venite, che tenghe ‘u megghie pesce du munne! (Signore, venite, che ho il miglior pesce del mondo!): una forza comunicativa che solo la cultura popolare riesce ad esprimere al meglio.
- Si, e cche cchiù? (Certo, e cos’altro?): la risposta ironica e irriverente del mercante che sbeffeggia l’anziana massaia incontentabile (mi dia un chilo di talli di cicorie, ma mi selezioni unicamente le puntarelle), decisa a ottenere il massimo risultato per la sua mensa col minimo sacrifico per il suo portafoglio.
- Catafreche! (Perbacco!): traduzione di senso ad indicare quanto stupore si può provare di fronte alla bellezza del corpo femminile in movimento.
- Bella, i vù nu pare de collante coprente? (Bella ragazza, vorresti un paio di collant ricoprenti?): quanta premura è rivolta dal venditore di intimo nei confronti della bella lucerina! Un approccio intriso di passione che nel fondersi con l’incedere sinuoso della donna trasmette calore tridimensionale alla scena.
Ed ora soffermiamoci un momento sulla domanda rivoltami dall’anziano signore: che ghè – cosa vuoi?
“A me questo fonema sembra quasi veneto. Non credi, Barbara, che qui si possano individuare punti di comunione linguistica tra il lucerino e il bellunese?”.
“Mi sento di escluderlo”.
Proseguo.
- Efesse e cche cuccuuaje… (Ma tu guarda che gufa…. ):Altro non è se non una profonda riflessione sul lento fluire della vita.
“Da qualunque prospettiva la si osservi – concludo – la donna si afferma come la vera protagonista della piazza”.
Barbara sorride. Dopotutto, per Lucera è stato amore a prima vista.