DEVICS - The way you sleep (1996); Blood red orange (2001); Just one breath (2006); teneri, raffinati losangelini fra nenie e caffè chantant, con misurati brividi elettrici.
DEXATEENS – Diamond in the concrete (2005); The ballad of souls departed (2009); da Tuscaloosa, Alabama! Superfluo descrivere il genere, ma the ballad of souls departed aggiunge emozioni desertiche al loro prevedibile ma brillante rock and roll.
DIRTY PROJECTORS – Offspring are blank (2012); moniker di Dave Longstreth, giovane del Connecticut; gospel del XXI secolo esaltato da rasoiate di chitarra.
DIRTY THREE – Hope (1996); the restless wave (1998); Down by the river (cover di Neil Young con i Low, 1999); Sue’s last ride (2000); Alice wading (2003); Ever since (2005); Australiani di Melbourne, costituiscono una delle migliori proposte del rock moderno, nonostante (o forse anche perchè) non usino alcun artificio di studio ma suonino i propri strumenti, con una perfetta miscela fra violino, flauto, batteria, chitarre acustiche e strumenti elettrici; spesso le loro registrazioni sembrano live in studio più che misurate esecuzioni, come in Sue’s last ride e la sua esaltante cavalcata finale o nella cover di Down by the river, dove insieme ai Low nobilitano oltre misura la canzoncina di Neil Young. I toni sono spesso intimisti o addirittura disperati (Hope é il lamento straziato di chi soffre tutti i dolori del mondo): facciano attenzione i cuori teneri.
DJ SHADOW – fixed incomed (2009); l’americano Joshua Paul Davis con un ritmato esercizio di elettronica e campionamenti.
DM STITH – Pity dance (2009); suoni intensi ed epici, coro ed arpeggi di chitarra che rotolano inesorabilmente a valle per il newyorkese David Michael Stith.
ESPERS – Riding (2003); Blue mountain (2006); romanticismo psichedelico da Filadelfia con forti legami con la tradizione folk più Inglese (Fairport Convention) che americana.
FILM SCHOOL – 11 (2006); metronomico e circolare esercizio new wave dalla California.
FIREBIRD – Bow bells (2006); I whish you well (2006); Lonel road (2009); Bow Bells ha un incipit slide classico, desertico, che può illustrare la copertina della storia del rock. Il britannico Bill Steer dimentica i trascorsi grindcore con Napalm Death e Carcass e ci regala il migliore tradizionale rock chitarristico degli ultimi decenni.
FISCHERSPOONER - O (2005); da New York elettronica con reminescenze di Kraftwerk e Terry Riley.
FLAMING LIPS – Hold your head (1992); Pompei am Gotterdamerung (2006); Convinced of the hex (2009); The sparrow looks up at the machine (2009); Powerless (2009); I found a star in the ground (2001); di Wayne Coyne, da Oklahoma city, sono i campioni assoluti della psichedelia moderna. Anticommerciali e dispersivi, é necessaria una cernita nella loro composita ed a volte folle produzione (vedi l’ultima “24 hours song”). Hold your head, eterea e circolare, è l’esercizio di stile più pulito; ancora più vicini, e dichiaratamente, ai Pink Floyd in Pompei am Gotterdamerung, che é come i londinesi sixties avrebbero dovuto suonare One of these days; altra passione dichiarata, le melodie di Neil Young innestate però su ritmiche complesse ed irregolari; I found a star on the ground è una suite minimalista di 6 ore accompagnata da un potente ritmo di batucada che bisogna trovare il tempo di ascoltare: i più pigri assaggino almeno i primi 25 minuti. Presso Wayne ha studiato Jonathan Donahue – Mercury Rev, il quale però ha capitalizzato molto meglio.
FOLLAKZOID – Trees (2013); 99 (2013); Cile cosmico! Dalla ripetitività ossessiva dei Neu ai Gong meno naif, quelli di You.
FRANZ FERDINAND – Jaqueline (2004); Eleanor put your boots on (2005); canzoncine scozzesi che non mancano di grazia e di qualche impennata elettrica.
FUZZY LIGHT – Through water (2010); nella tradizione crooner di Leonard Cohen e Nick Cave, ma sorprende la complessità degli inserti strumentali elettrici dei coniugi Watkins da Cambridge.
GRAVENHURST – Song from under the arches (2005); Nick Talbot da Bristol con le classiche alternanze fra quiete sonnolenta e tempeste elettriche
HEAVY TRASH – Lover street (2010); Jon Spencer approda al nuovo secolo con altra sigla ma è sempre il più newyorkese rock and roll blues .
HOLLY GOLIGHTLY – Wherever you werw (2000); Any other way (2001); The luckiest girl (2006); sensuale e sixties, la londinese da club fumosi e nostalgici, con arrangiamenti leggeri e percussioni frenate, chitarra ritmica con tanto di vibrato e pochi tocchi di tastiere vintage, regala in una discografia sterminata un po’ di perle, su tutte Wherever you were.
HOLY FUCK – Grease fire (2010); gli incazzati di Toronto, con qualche nuvola emotiva che percorre un’elettronica monolitica accompagnata da batteria altrettanto granitica.
HOWE GELB – But i did not (2006); dall’Arizona dei Giant Sand e degli OP8 Howe passa al terzo millennio con più marcate suggestioni western: ritmo che è l’eterno sferragliare di un treno, chitarra che ha fretta di arrivare e spazzole sul rullante ad accompagnare una bella canzone.
HOWLIN’ RAIN – In sand and dirt (2006); trascinata ed intensa, pesante da trovare difficoltà a segnare il tempo, il lato oscuro di San Francisco.
I LOVE YOU BUT I’VE CHOSEN DARKNESS – Fear is on our side (2006); dal sentimentalismo insolito per il Texas di Austin (Pain teens…) un breve, intenso, pulsante e romantico strumentale.
IN GOWAN RING – Aurora (2005); dall’Oregon un raro tuffo nel passato del progressive acustico inglese.
INGE THOMSON – Cradle song (2010); vocina in falsetto,”piano accordion”, campanellini e dolci melodie dalla Scozia.
IRON & WINE whit CALEXICO – Red dust (2005); Burn that broken bed (2005); ferro, vino, ma per infondere un po’ di sangue e vita al cantautore americano Samuel Beam servono i Calexico, col loro più classico tex-mex.
JAMES BLACKSHAW – The cloud of unknowing (2007); chitarrista acustico inglese che si ispira nei suoi solo album alla tradizione americana di Robbie Basho e John Fahey piuttosto che a quella inglese di Bert Jansch.
JESSE SYKES & THE SWEET HEREAFTER – Like love lust (2007); Instrumental (2011); la chitarrista e cantante Jesse da Seattle con l’altro chitarrista Phil Wandsher; rock elettrico, psichedelico, nella grande tradizione americana, soprattutto quando riesce a fare a meno dell’eccesso di sentimentalismo.
JOHN GRANT – I wanna go to marz (2010); canto tenue dall’arrangiamento discreto e delicato, il cantautore di Denver dalla carriera sfortunata viene finalmente aiutato dai Midlake che lo accompagnano in studio (dopo che lui li aveva supportati in tour).
JOKER’S DAUGHTER – Jesse the goat (2009); ancora una voce,quella della anglo-greca Helena Costas, conturbante ed infantile, che ricorda Hope Sandoval (Mazzy star) il che però è il pregio maggiore di questa tenue canzone.
JONATHAN WILSON – Desert raven (2011); Natural rhapsody (2011); Valley of the silver moon (2011); forse l’unica grande uscita degli ultimi anni, l’intero album si ispira al migliore rock dell’epoca d’oro ‘68 – ‘71 ma il geniale lungocrinito della North Carolina non si è confermato con i lavori successivi, distratto dalla sua perizia come produttore, al punto da trattare anche il suo lavoro successivo come un prodottino sterile da easy listening. Per intanto “Gentle spirit” entra nella storia del rock con i suoi sapori Byrds/Crosby e la psichedelica e composita Valley of the silver moon, autentico capolavoro del genere; come poche volte accade, non un prodotto di genere per nostalgici ma un’opera che brilla di valore suo, da porre sugli scaffali subito dopo “if a could only remember my name”.
(continua)