ago 05, 2015 | Post by: admin Commenti disabilitati

CI AVETE ROTTO IL PASTICCIOTTO! di Michele Colucci

 

Il Salento è una terra bellissima, che fa giustamente gola a molti, ma a sentire i salentini il paradiso terrestre a confronto è un posticino carino e niente più. Tante sono le eccellenze locali e le bellezze naturali su cui ormai da anni è stata lanciata un’offensiva tendente alla valorizzazione di un territorio che aveva tutti i numeri per emergere. E così è stato. Da terra di confine, bella ma sperduta e spesso sconosciuta, il Salento è rapidamente salito nei gusti della gente fino a diventare uno dei posti più trendy dove trascorrere le vacanze. Non solo per la fugace stagione estiva, che pure fa ormai registrare ogni anno il tutto esaurito, almeno sulle spiagge più esclusive. Grazie ad un sapiente recupero delle più belle masserie abbandonate dai vecchi proprietari e alla loro trasformazione in Spa di lusso, confortevoli ed esclusive, spesso con grossi investimenti di società straniere, il tacco d’Italia si è piazzato stabilmente ai primi posti nelle graduatorie di preferenza e gradimento di ogni sorta di vacanzieri provenienti da tutto il mondo e appartenenti alle categorie più disparate, dai radical chic fino ai forzati della vacanza low cost.

Tant’è che se in ambito nazionale (e non solo) si parla di Puglia il pensiero immediatamente corre al Salento, saltando a piè pari tanti altri bei posti che non sono da meno. Lo testimonia la scelta sempre più frequente di location in terra salentina, per ambientarci opere cinematografiche o fiction televisive.

In questa operazione buona parte del merito va riconosciuto proprio ai salentini che, a differenza di altri conterranei (penso ad esempio ai garganici, tanto per citare una delle etnie più vicine geograficamente) hanno saputo valorizzare oltremodo i loro prodotti, le loro merci, le tradizioni, oltre ai luoghi, questi sì eccezionali, trasformandoli in eccellenze, come va di moda definirle oggi.

Ma a ben considerare non tutto quello che passa per eccellenza può definirsi tale. Prendiamo ad esempio la pizzica, una sorta di tarantella, solo più noiosa e sempre uguale a sé stessa, che si balla sia in coppia che in gruppo (e quelli che la ballano sono gli unici a divertirsi). Vivamente sconsigliato l’ascolto da mero fruitore: un intero concerto di pizzica potrebbe tranquillamente rientrare tra le forme di tortura, da vietare per legge; dopo il secondo brano di fila è difficile non sbadigliare dalla noia. La tradizione narra che la pizzica deriverebbe da un rito per esorcizzare le donne tarantolate (ovvero morse dalla taranta), che vengono prese dalle convulsioni. Debitamente rallentata e trasformata in danza di corteggiamento, è così giunta fino ai giorni nostri con pochissime varianti.

Eppure……eppure che cosa sono riusciti ad inventarsi questi diabolici salentini? Nientemeno che La Notte della Taranta, un raduno-concerto che dura un’intera notte, che ogni anno in agosto richiama folle sempre maggiori, fino ad assumere le dimensioni di una piccola Woodstock etnica. Come si è potuto raggiungere un simile risultato? Semplice: anche un mobile vecchio con un sapiente restauro ed una mano di lucido può risplendere e trasformarsi in un pezzo pregiato. E’ bastato nobilitare l’evento affidandone la direzione artistica a musicisti di prestigio internazionale, quali Stewart Copeland, l’ex batterista dei Police, passando per Mauro Pagani, Ludovico Einaudi, fino ad approdare a Phil Manzanera, storico chitarrista dei mitici Roxy Music, cerimoniere dell’edizione di quest’anno. Tutta gente che non aveva niente in comune con il folk, ma che ha saputo attirare artisti di prim’ordine e contribuire a spostare sempre più in alto l’asticella della qualità, con ritorni pubblicitari, di afflusso di turisti e di diffusione nei media. Con il risultato pratico che  il mondo intero ora conosce la taranta e la pizzica.

Tanto di cappello: bisogna solo imparare da un popolo cui sicuramente non manca l’orgoglio delle proprie radici ed ammirare il loro senso di appartenenza alla propria terra.

Ma come. Avevamo iniziato intenzionati a farne macerie di questi figli della Magna Grecia e ora ci ritroviamo a tesserne le lodi. Un momento di pazienza e vi serviamo subito. Sì, perché non è tutto oro quel che riluce. Vogliamo parlare delle coste, bellissime quanto si vuole? In alcuni punti l’acqua è di un celeste che sembra di stare ai Caraibi, per non dire di alcune spiagge dalla sabbia bianchissima, o delle rocce a strapiombo lungo la costa di Castro marina. Ma sempre per rimanere sull’adriatico ce ne sono altre non meno incantevoli. Basti pensare al Gargano (di nuovo) ed alle Isole Tremiti, solo per rimanere in Puglia. Anzi se proprio vogliamo cavillare, non è che con gli abusi edilizi e la cementificazione laggiù ci siano andati tanto per il sottile. E’ pur vero che di gioielli architettonici come Lecce, Otranto e Gallipoli ve ne sono pochi esempi all’altezza e per trovarne di simili bisogna spostarsi parecchio, ma non è che il resto delle innumerevoli cittadine, la maggior parte delle quali con la rima baciata in “ano”, siano proprio imperdibili.

E vogliamo tralasciare la gastronomia? Le tanto strombazzate frise altro non sono che fette di pane tostato di forma circolare col buco al centro, con cui si preparano delle bruschette; roba che la panzanella foggiana, sempre a base di pane raffermo ma con un trionfo di ingredienti (dai pomodori ai cetrioli, dalla cipolla all’origano, alle olive) di colori e di sapori, a confronto diventa una prelibatezza. Le famose pucce? Il pane con le olive che è sì buono, ma allora? La Puglia è piena di zone dove il pane è la migliore delle specialità locali: da Altamura, dove gli hanno conferito l’onorificenza massima, fino ai misconosciuti comuni del sub appennino dauno e dell’entroterra garganico (ci risiamo) dove la compattezza del pane lo conserva intatto anche per una settimana. Per tacere della sublime focaccia barese, anche perché sconfineremmo nel settore della pizza.

Per la cucina di pesce i paesi della costa della provincia barese non li batte nessuno al mondo. Sono i baresi ad avere inventato il sushi, altro che Giappone: il crudo che trovate da quelle parti i paesi del Sol levante se lo sognano.

Quanto ai vini, più in là di Negramaro e Primitivo non andiamo: prodotti degnissimi, sia detto senza alcuna riserva, ma a che a mio parere hanno già espresso tutto quello che era nelle loro potenzialità. Diversamente da quanto si sta verificando per l’Aglianico della vicina Lucania e per il Taurasi campano, che possono rivaleggiare con i nobili supertuscan e coi rinomati rossi piemontesi, o per il foggiano Nero di Troia, che nel giro di pochi anni da uva da taglio, viene ora vinificato in purezza e si sta affacciando anche lui alla nobiltà enologica.

Dulcis in fundo il tanto rinomato pasticciotto, di cui tanto si decantano le meraviglie e che altro non è che un biscottone di pasta frolla farcita alla crema pasticcera e cotto in forno. Buono al massimo per la prima colazione, non regge il confronto con le crustole, il raffinato dolce natalizio del foggiano, condite col mosto cotto o con il miele, o con le zeppole di San Giuseppe (quelle fritte rigorosamente), tanto per rimanere nell’ambito dei dolci poveri tradizionali pugliesi. Per non infierire non proponiamo nemmeno il paragone con il sopraffino babà napoletano o con l’ineguagliabile cassata siciliana, il Re e la Regina della nostra pasticceria.

A fare da contraltare a tanta prosperità un trend negativo sta invece funestando l’ambiente culturale leccese in particolare, e salentino in generale. Negli ultimi mesi hanno chiuso i battenti due tra le istituzioni culturali più prestigiose: l’Orchestra Tito Schipa e la Biblioteca provinciale Bernardini. Le motivazioni sono sempre le stesse, ormai è diventata una trita cantilena: la mancanza di fondi dovuti all’autonomia gestionale con cui province e regioni devono fare i conti porta inevitabilmente al taglio dei rami non produttivi. E’ triste ma è così: una delle più celebri orchestre del centro-sud Italia e la più bella biblioteca di Lecce devono cessare l’attività perché non portano entrate ed i fondi a disposizione non sono più sufficienti a garantirne il regolare funzionamento.

Quanto ancora saremo disposti a impoverirci per tutelare gli interessi (e gli introiti) di un manipolo di banche e di un pugno di finanzieri e manager che in nome del profitto sacrificherebbero qualunque cosa?