feb 10, 2016 | Post by: admin Commenti disabilitati

TRITTICO FEMMINILE di Achille Dal Piano

 

UN PROLOGO LUNGO MA NECESSARIO

L’estenuante lunga marcia delle donne in cerca di eguaglianza culturale, giuridica, politica e sociale, nel rispetto della differenza di genere, non si può dire affatto compiuta. A dispetto dei proclami ufficiali, soltanto in una porzione minuscola del mondo odierno possiamo certificare di essere vicini al traguardo; nel resto del globo abitato, al contrario, il percorso è tutt’altro che agevole, in molti Paesi talmente irto di ostacoli da comprometterne l’avanzamento, quando non si risolve, addirittura, in un regresso disperante.

Inoltre, se un diritto umano viene declinato in senso etnico-religioso perde il suo carattere laico e cosmopolita, il lascito più importante che l’Occidente consegna al futuro di questo pianeta azzurro vagante negli spazi siderali; pertanto, un documento costituzionale come la “Dichiarazione islamica universale dei diritti dell’uomo”, datata 1981, è una contraddizione in termini, una Magna Carta depotenziata e circoscritta alla Umma, la comunità musulmana, all’interno della quale il ruolo della donna è regolato in modo solenne ma differenziato, così da non poter oltrepassare l’orizzonte interpretativo della tradizione esegetica del Corano.

Pur navigando tutti nella stesso barcone globalizzato, vi è di fatto un’asimmetria fra le nostre rispettive Weltanschauung[1], il che comporta l’insorgere di problemi di integrazione, quando si convive nel medesimo contesto territoriale e normativo. La riflessione che deve impegnarci seriamente oggi, riguarda la delicata questione di come e se effettuare la transizione da una SOCIETÀ APERTA (Karl Popper) a una invece LIBERA (Paul Feyerabend) governata da uno STATO MINIMO (Robert Nozick), al cui interno ogni tradizione, gruppo o comunità mantenga una sua propria identità peculiare, rispettando le procedure garanti della GIUSTIZIA SOCIALE (John Rawls).

E tuttavia, noi Europei non proveniamo certo da una galassia lontana ricolma di meraviglie, ma piuttosto da un passato millenario costellato di legislazioni liberticide, segregazioni forzate, caccia alle streghe, inquisizioni sanguinarie e devastanti guerre di religione, che nulla hanno da invidiare alle attuali carneficine islamiste; l’esperienza storica ha favorito lentamente la formazione di anticorpi culturali che ci rendono se non immuni, quantomeno allenati e pronti a ribattere idoneamente ai portatori sani di grettezza teologico-politica.

Miliardi di esseri umani svolgono nel quotidiano una silente battaglia di civiltà, muniti soltanto della propria semplice presenza, sessualmente orientata, divergente. Di tante eroine, a volte, anonime di cui si è smarrita la memoria, in tale sede vorrei ricordarne almeno tre, Aspasia, Ipazia e Artemisia, in una sorta di medaglioni divulgativi, che rimandano comunque all’approfondimento biografico da parte dell’eventuale lettore curioso. E nonostante il taglio didascalico assunto, la presente esposizione ha come scopo di rintracciare quella sottile linea rosa, che collega le protagoniste di questi brevi ritratti in duemila anni di storia mediterranea, dalla polis democratica all’Egitto ellenistico fino all’Urbe dei papi.

ASPASIA DI MILETO

La prima tappa del nostro viaggio temporale ci riporta indietro alla Grecia classica dopo le strabilianti vittorie sui Persiani, l’instaurazione dell’imperialismo di Atene fondato su una potente flotta militare e il conseguente apogeo della sua talassocrazia, con il trasferimento autoritario del tesoro comune della Lega delio-attica dall’isola consacrata ad Apollo alla metropoli continentale. In questa cornice storica, dove le assemblee popolari e le decisioni riguardanti la collettività erano appannaggio dei cittadini di sesso maschile, si affaccia sulla scena pubblica la figura di una donna forestiera, proveniente dalle terre del Levante, la Ionia, culla della filosofia occidentale.

Secondo i suoi estimatori, Aspasia di Mileto era versata nella retorica tanto da esser riconosciuta come una nuova erotodidaskalos, una maestra dei discorsi d’amore, nel solco poetico tracciato dall’impareggiabile Saffo. I suoi detrattori, invece, la dipinsero piuttosto al pari di una geisha dell’antica Grecia, ossia, di un’etèra[2] colta, raffinata e intraprendente, tenutaria di una scuola di cortigiane. Di sicuro divenne l’amante esclusiva e ufficiale del grande statista ateniese Pericle, che la volle poi al suo fianco, dopo il divorzio dalla moglie, quale compagna di vita more uxorio, visto che proprio una sua legge impediva di sposare una straniera.

Forse allieva di Gorgia il sofista e probabile insegnante di Socrate, fu amica dei più celebri artisti e intellettuali del tempo, dall’architetto e scultore Fidia ad Anassagora di Clazomene uno dei massimi fisici pluralisti. Subì l’attacco spietato dei nemici del suo illustre partner, il quale, tuttavia, non cedette ad alcun ricatto politico, rimanendole sempre accanto con lealtà fino alla propria morte, avvenuta durante un’epidemia di peste in piena Guerra del Peloponneso.

Era la stessa Atene democratica e convintamente maschilista che trent’anni dopo farà bere la cicuta all’innocente Socrate, il più saggio e il più giusto fra gli uomini, a detta di Platone, anche se quest’ultimo nel “Simposio” identifica a sorpresa in Diotima di Mantinea la vera latrice del concetto di Eros-Filosofo; laddove nella “Repubblica” ha perfino l’ardire di immaginarsi che le donne assumano una funzione di governo nella città-stato, negata in patria e altrove ma non, in parte e paradossalmente, nella rivale e aristocratica Sparta, dove le bambine erano addestrate duramente alla stregua dei coetanei e il matriarcato surrogava l’autorità patriarcale spesso dirottata verso le attività belliche.

Si può congetturare che, oltre all’esempio vivente della potenza lacedemone, l’autore dei “Dialoghi” avesse in mente anche i racconti a lui pervenuti sul cenacolo di Pericle egemonizzato dalla sua adorata concubina, e che inconsciamente ne abbia estrapolato la fondamentale componente femminile, rappresentandola nelle sue opere sotto forma di narrazione mitologica o utopica, così da neutralizzarla in qualche modo e renderla pertanto inefficace sul piano della realtà sociale. Un ruolo di comando che, nella finzione teatrale della commedia “Le Donne al Parlamento”, il misogino Aristofane attribuisce pro tempore all’altra metà del cielo, quasi a voler rammentare agli spettatori divertiti nella cavea, la statura politico-culturale dell’affascinante meteca[3] venuta dalla Ionia, ammonendoli, tuttavia, tra le righe, a non replicare in avvenire l’errore commesso dai loro padri.

Dopo la prematura dipartita di Pericle e la morte in battaglia del generale Lisicle, suo probabile nuovo compagno, di Aspasia non si registrano più notizie; in ogni caso, è assodato che non ottenne mai l’agognata cittadinanza, concessa bensì in via del tutto eccezionale, al figlio illegittimo avuto proprio dalla relazione con il leader democratico.

Oggi un’altra ex first lady, Hillary Rodham Clinton, tenta di sfondare quel soffitto di cristallo che impedisce da sempre alle donne di scalare la gerarchia economico-sociale fino ai suoi gradini più alti. Diventare adulti politicamente può implicare un parricidio interiore, anche sotto la specie della figura maritale: uccidere dentro di sé Bill e conquistare il vertice della maggiore democrazia più influente della storia, non più moglie di un ex presidente fedifrago, ma inquilina principale della Casa Bianca con al seguito il suo principe consorte.

 

IPAZIA DI ALESSANDRIA

Con un balzo cronologico di ottocento anni, planiamo così al principio del V sec. d. C. sul delta del Nilo, dove il grande condottiero macedone volle edificare il più importante degli agglomerati urbani che si fregiavano del suo nome, Alessandria d’Egitto, un crocevia dinamico, vivace, brulicante di mercanti e intellettuali, che rendevano questo angolo del mondo conosciuto un laboratorio a cielo aperto frequentato dai ricercatori di ogni stirpe e culto. Augusto ne aveva inglobato l’entroterra dopo la battaglia di Azio, facendone così il granaio dell’impero; in compenso aveva unificato il bacino del Mediterraneo, ponendo le basi di una pacificazione duratura con l’estensione, inoltre, della propria legge, specialmente di quel diritto civile che nei secoli avrebbe contemplato finanche un embrionale riconoscimento giuridico al genere femminile, impensabile per la mentalità di origine ellenica.

Contemporanea di Sant’Agostino, Ipazia era una brillante studiosa e docente vissuta al tramonto della civiltà classica, dove la meraviglia tecnica del Faro simboleggiava la luce culturale emanata dalla sua città, nella parte più ricca ed evoluta della gigantesca istituzione dei Cesari, che alla morte di Teodosio il Grande si andava scindendo definitivamente fra l’Oriente greco diretto da Costantinopoli e con davanti un altro millennio di storia, e l’Occidente latino governato da Ravenna ma destinato in breve al dissolvimento sotto il peso delle invasioni barbariche.

Quando il cristianesimo, assurto ormai a religione di Stato, si trasformava così da perseguitato in persecutore, la promettente fanciulla nordafricana scelse la fedeltà al paganesimo in cui l’aveva educata il padre, Teone, scienziato anche lui, il quale nell’introduzione al proprio Commento al terzo libro del sistema di Tolomeo, menziona esplicitamente la figlia quale supervisore editoriale dell’opera. Intelligenza precoce, quindi, quella di Ipazia che per tutta la vita utilizzò sempre le potenti e mansuete armi della ragione argomentativa, per diffondere la verità in un clima tollerante di rispetto delle opinioni dissonanti. Con terminologia corrente, potremmo asserire che la sua vocazione professionale ne fece la massima esperta di astrofisica del tempo, evidenziata poeticamente da Pallade in un epigramma elogiativo che recita, “verso il cielo è rivolto ogni tuo atto”, quasi anticipando il più famoso “cielo stellato sopra di me”, inciso sulla tomba di Immanuel Kant.

Alcuni eruditi, a pochi decenni dalla sua morte, la descrivono già come la guida autorevole del rinato Platonismo nella variante alessandrina di Plotino, di cui era considerata la più degna erede, proprio in quel luogo mirabile arricchito dall’imponente Biblioteca. La metropoli ellenistica, infatti, ricopriva ancora il ruolo di capitale scientifica dell’ecumene tardo-antica, dove le indagini speculative in ambito matematico andavano a braccetto con l’insegnamento dialettico. Ipazia eccelleva in tutte queste discipline, e grazie al suo ingegno così straordinario e a una personalità forte ed equilibrata, era rispettata dall’intera popolazione e, in particolare, dalla sua classe dirigente, tanto da venire consultata ogni volta ci fosse da dipanare un problema urgente di interesse generale.

Un suo discepolo cattolico, Sinesio di Cirene, che in una lettera la chiama “madre, sorella e maestra”, anche dopo l’investitura episcopale, continuerà a decantarne le qualità morali e filosofiche, rintuzzando una certa tradizione che già la raffigurava ostile alla Chiesa e nemica di Cristo, solo perché contraria agli opposti estremismi. D’altronde, nei periodi di scontri epocali fra visioni inconciliabili del mondo, gli appelli alla moderazione, alla ragionevolezza, in nome della humanitas, appaiono piuttosto come un tradimento perpetrato ai danni di una presunta coscienza identitaria.

E tuttavia, i suoi concittadini più radicali, istigati da gruppi di monaci fanatici e aggressivi, seguaci del nuovo credo monoteista predicato dal vescovo Cirillo, non gradirono la disinvoltura intellettuale né la coerenza etica da lei mostrate in pubblico, e così la sorpresero un giorno per strada e, dopo averle strappato di dosso la veste, la trucidarono impietosamente riducendo a brandelli il suo corpo.

Negli scritti del vecchio allievo e degli altri dotti trapela costantemente l’immensa stima e il profondo rispetto verso la memoria di colei che fu, suo malgrado, l’ultima martire del pensiero antico.

ARTEMISIA GENTILESCHI

In un batter di ciglia la macchina del tempo sorvola il Medioevo e le acque contese da Veneziani e Turchi, scivola verso Ponente dove scorge la cupola di San Pietro, e scendendo dolcemente a sfiorare il suolo, s’imbatte in una ragazza dall’incarnato chiaro e dallo sguardo sicuro e profondo.

Artemisia era una pittrice romana di scuola caravaggesca, la prima ad essere ammessa all’Accademia delle Arti e del Disegno di Firenze. La grandezza dell’artista venne riscoperta e valorizzata circa un secolo fa dal critico Roberto Longhi che di lei scriveva: «l’unica donna in Italia che abbia mai saputo che cosa sia pittura, e colore, e impasto, e simili essenzialità».

Si inaugurava agli esordi del Seicento l’Estate di San Martino del Bel Paese, una strana fase della nostra Età moderna segnata dal dominio spagnolo di una grossa fetta dei territori peninsulari, ma caratterizzata dal lento crepuscolo della prosperità economica esplosa nel Rinascimento. È questa, infatti, l’epoca che preannuncia il Barocco, dove la floridezza delle attività produttive convive insieme all’incipiente temperie della Controriforma, con il papato ridotto, ormai, a gestire uno staterello italiano, mentre la vicina Napoli sorpassava Parigi quale città più popolosa d’Europa.

Michelangelo Merisi spadroneggiava con il suo stile figurativo, in virtù del quale le ombre, lo sfumato, copulavano avidamente con la luce, e la realtà quotidiana irrompeva in opere di tela costruite attorno a personaggi tratti dalle Sacre Scritture, circonfusi di santità.

In quegli anni la figlia di Orazio Gentileschi non era che un’adolescente a bottega dal padre, ricettiva e abile come e più di un maschio, ma non ancora matura e, in fondo, neppure credibile per quell’ambiente capitolino in cui a una donna che non voleva maritarsi, si prospettavano soltanto due sbocchi esistenziali: la prostituzione o il convento.

Durante le fasi istruttorie del processo, gli inquisitori ordinarono di sottoporla alla tortura della Sibilla, riservata a chi denunciava molestie sessuali, poiché l’onere della prova, in quel tempo e per quel genere di crimini, spettava alle vittime e non ai carnefici, soprattutto se dalla visita ginecologica si appurava una deflorazione di molto anteriore alla querela, come nella fattispecie. I magistrati, pertanto, intimarono alla diciottenne di discolparsi, facendole strizzare con piccoli cappi le dita delle mani fino al sanguinamento, pur di estorcerle una verità che lei andava ormai ripetendo da giorni, da settimane: di aver subito uno stupro dall’amico del padre, l’artista Agostino Tassi, un trentenne dalla cattiva reputazione e che lontano da casa si spacciava come libero da vincoli coniugali, circostanza anagrafica non da poco, anzi, determinante, in un periodo storico nel quale la violenza carnale sulle donne si configurava legalmente come perdita della verginità arrecata da un uomo celibe o vedovo, senza il successivo matrimonio riparatore. Se, infatti, il soggetto accusato acconsentiva alle nozze, di solito sollecitate dalla stessa famiglia della vittima, il reato si estingueva in automatico perché, in effetti, consumato e rato, si potrebbe dire sulla scorta della Sacra Rota. Nel caso in questione, il maestro venuto dalla Toscana risultò sposato, anche se abbandonato dalla moglie che egli riteneva sicuramente defunta. E tuttavia, in assenza di testimonianze o documenti validi, la Corte lo reputò al momento ancora legato indissolubilmente dal sacramento officiato al cospetto del Signore.

Le indagini portarono faticosamente a stabilire la verità dei fatti, nonostante la generale diffidenza nei confronti della giovane pittrice, così da giungere alla condanna dell’imputato, il quale fra due pene alternative, cinque anni di lavori forzati e l’esilio da Roma, preferì opportunamente quest’ultima. Due giorni dopo, in obbedienza al volere paterno e alle convenzioni sociali, Artemisia andava in sposa a Pierantonio Stiattesi, un artista fiorentino ascoltato come teste a carico di Tassi.

Bisognerà però attendere circa un terzo di millennio e il coraggio della siciliana Franca Viola, per assestare un duro colpo a una prassi normativa così arcaica e ingiusta, sebbene la sua abolizione definitiva dal nostro ordinamento giuridico risalga soltanto al 1981, mentre fino al 1996 lo stupro sarà considerato delitto contro la morale e non contro la persona.

BREVE EPILOGO

Di quali colpe si macchiarono, in epoche e luoghi diversi, Aspasia, Ipazia e Artemisia? Di essere libere pensatrici, anticonformiste e, soprattutto, donne. La donna che pensa da sé e agisce di conseguenza, fa tremare i polsi agli uomini ieri come oggi. Da come le molteplici società umane trattano le differenze di genere, si può dedurre il grado di civiltà di un popolo e di un’intera epoca storica. L’estenuante lunga marcia delle donne non si è affatto conclusa, ma prosegue instancabile, a dispetto delle violenze più brutali che ammorbano gran parte del mondo odierno, e della meno appariscente sudditanza psicologica che, subdola, si nasconde nella minuscola porzione di globo abitato a cui appartengono, solo per mero gioco di caso e necessità, scrivente e lettore di questo modesto trittico femminile.



[1] Weltanschauung: FILOS. Concezione del mondo e della vita propria di un individuo, di un gruppo, di un indirizzo filosofico o di un dato periodo storico.

[2] Etèra: Nell’antica Grecia, cortigiana.

[3] Meteco: Nell’antica Grecia, forestiero libero che risiedeva stabilmente nel territorio di una città, soggetto all’esclusione dalla vita politica e al pagamento di determinate imposte.