feb 10, 2016 | Post by: admin Commenti disabilitati

REDUCI SENZA FRONTIERE di Alfredo Padalino

 

Per chi l’ha provata, l’esperienza traumatica della guerra si fa, talora, indicibile, afasica, incanalandosi invece in pochi individui speciali, in forme di sublimazione artistica che fungono da terapia autogena di un popolo. L’Italia fascista, carnefice e, insieme, vittima sacrificale di un conflitto bellico planetario, si risveglia una mattina lacerata e in ginocchio; l’America democratica, tronfia di benessere, rivaleggia con la Russia comunista, esportando la sua libertà a mano armata in Indocina, dove conosce, tuttavia, la vergogna della disfatta.

A farne le spese è sempre l’uomo comune, per il quale urge approntare una cura omeopatica con farmaci simbolici non invasivi, opere dell’ingegno poetico che abbiano, però, una valenza catartica anche se diluita nel tempo, affidandone magari la stesura a personaggi inaspettati, appartenenti al mondo dello spettacolo leggero, un commediografo brillante e un raffinato cantante soul, abituati a calcare le scene e a ricevere l’applauso compiaciuto del pubblico ai propri lavori gustosi e disimpegnati.

La “Napoli milionaria” del 1945 di Eduardo De Filippo racconta la vicenda umana di un padre di famiglia che, durante la disastrosa guerra mussoliniana, si arrabatta come può, vivendo d’espedienti, finché un giorno gli occupanti tedeschi lo prelevano casualmente in una via, deportandolo in Germania. Evaso però dal campo di concentramento, rientra in una nazione sconfitta e umiliata, dove gli abitanti, quasi abbrutiti, si barcamenano tra mercato nero, furti e prostituzione.

La narrazione teatrale decolla lieve e spensierata come una qualsiasi commedia partenopea, tramutandosi poi in un dramma in scala domestica che odora nondimeno di tragedia collettiva, la cui soluzione arriverà, forse, quando passerà ‘a nuttata; una battuta, questa, pronunciata nell’ultimo atto dallo stesso protagonista con insistenza, per consolare la moglie affranta, più confusa in verità che disperata; parole ambivalenti che da un lato inducono a un’attesa fiduciosa quanto passiva nei confronti del futuro, e dall’altro invogliano piuttosto all’impegno paziente e incisivo nella realtà quotidiana, senza lasciarsi travolgere dal più bieco cinismo qualunquista.

Qualche decennio dopo anche Marvin Gaye parla in “What’s going on” di veterani cupi e tormentati, ma stavolta i tamburi risuonano minacciosi da molto più lontano, in Vietnam. La canzone – e l’album omonimo che la contiene – descrive le impressioni di un soldato afroamericano che ritorna finalmente in patria, scoprendone purtroppo gli aspetti più devastanti: l’ingiustizia, la povertà e la violenza.

L’assenza forzata ha coinciso, infatti, con l’acuirsi di antiche contraddizioni interne agli USA, che sfociano negli omicidi politici, in rivolta aperta dei ghetti urbani fino alla protesta dei campus universitari. E tuttavia, c’è una debole luce che s’intravede in fondo al tunnel, ma non si può restare fermi così, al buio, ad aspettare un rimedio qualsiasi proposto da chissà chi. Niente più deleghe a scatola chiusa, perché ogni individuo è investito della responsabilità sociale di sospingere la propria comunità verso l’uscita dall’impasse, là dove risplende il sole della fratellanza mondiale. Piuttosto che combattere un presunto nemico esterno, l’uomo contemporaneo deve lottare con i fantasmi che gli abitano dentro, per creare un mondo più unito e solidale.

Con un linguaggio estetico moderno e popolare, Eduardo e Marvin rappresentano storie personali ben contestualizzate ma di respiro universale, attraverso degli “instant work” che, in parte, si riallacciano alla tradizione epica dei nostoi ellenici cantati dagli aedi: il periglioso rimpatrio degli eroi achei dopo la conquista di Troia.

La nuova Odissea nello spazio del Novecento è incamminarsi a piedi fra le macerie di Continenti dilaniati, sorvolare fiumi esotici, giungle ostili e oceani sconfinati, per imbattersi infine in se stessi, nel proprio passato lasciato a Itaca, quel rassicurante mondo arcaico che, invece di cristallizzarsi, è andato avanti in modo autonomo e imprevisto, mettendo a repentaglio le vite di chi rincasa e di chi è rimasto, disegnando per ciascuno di loro un domani assai diverso, in ogni caso, da quello immaginato solo un anno prima.