Da William Shakespeare a Umberto Eco passando per Oscar Wilde, tre protagonisti della cultura europea legati da un filo conduttore: la riflessione sull’importanza dei nomi, dei segni linguistici che caratterizzano la specie umana.
La prima declinazione latina è esemplificata dalla “rosa”, un nome che vale più di ciò che intende denotare, ossia, qualcosa di colorato, odoroso e provvisto di spine; la “rosa”, dunque, un insieme di quattro lettere in due sillabe, mero rivestimento convenzionale, parola suscettibile di intercambiabilità, per Giulietta, così come l’altra, “Romeo”, tanto dolce nei suoi pensieri di fanciulla innamorata, sostituendo la quale, tuttavia, non sarebbe diminuita l’intensità del sentimento provato.
Al mutare del significante, il significato non cambia.
Travalicando ogni apparenza semiotica, l’amore va alle cose stesse, infrangendo così le più inveterate abitudini linguistiche, di cui sono intessute le nostre azioni comunicative, le nostre esistenze.
Nel primo romanzo di Eco, il giovane novizio Adso fa l’esperienza fugace e indelebile dell’amore profano e carnale, con un’ardente compagna di una notte senza poterne, tuttavia, carpire il nome. Rammentando da vegliardo la sua adolescenziale avventura peccaminosa, il ricordo del volto di colei che lo aveva iniziato all’ebbrezza dei sensi mai più rivissuta, gli procura ormai prossimo alla morte la nostalgia di un nome mai udito pronunciare.
Letteratura e vita, d’altronde, sono infarcite di vicende analoghe dove individui sopraffatti da improvvise passioni, dimenticano i propri status symbols, nel senso etimologico di marchi sociali di riferimento, ritrovandone al di sotto, la concretezza di persone in carne, ossa e cartilagine, per dirla con Totò.
Nella commedia di Oscar Wilde, “L’importanza di chiamarsi Ernesto”, quella prospettiva, in fondo romantica, è invece del tutto rovesciata. La storia umana, ideale e materiale, è fatta anche di individui che si preoccupano di essere qualcuno mediante l’autoimposizione di un nome, retaggio magari di una dignitosa provenienza genealogica. Le battute epigrammatiche snocciolate dai personaggi sono un modello impareggiabile di humour culturalmente critico, orientato a satireggiare la boriosa Inghilterra vittoriana.
La vita relazionale procede, quindi, oscillando tra due istanze legittime e antitetiche, per guadagnare una forma più alta di autenticità, cancellando un segno greve come uno stigma, o rivendicandone la sua peculiare capacità definitoria e distintiva. Ma in entrambi i casi emerge, tuttavia, l’impossibilità umana di evitare le parole per nominare la visibile realtà circostante e l’indefinibile coacervo di mondi celati nella nostra interiorità.
Affermando o negando qualcosa, si articola nei millenni un linguaggio ricco e policromo, estendendolo fino ai bordi semantici dell’essere, per istituire così un vocabolario onnicomprensivo, enciclopedico, capace di evocare l’ineffabile: Dio o il Nulla.