dic 26, 2016 | Post by: admin Commenti disabilitati

IL REGALO PIÙ BELLO di Agostino Trombetta

 

Stava diventando un ometto, il piccolo Jari, cresciuto a Rovaniemi, nella gelida Lapponia, nella bottega di Babbo Natale, tra elfi, renne e giochi in costruzione. Una mamma troppo povera per poterlo crescere lo aveva lasciato una notte d’inverno, accuratamente imbacuccato perché non soffrisse il freddo, tra la neve, dinanzi alla porta del vecchio vestito di rosso. Evidentemente, e a ragione, aveva pensato che nessuno avrebbe potuto accogliere il piccolo e trattarlo così bene come avrebbe fatto Santa Claus. Infatti questi lo aveva tenuto con sé, coccolato, educato ed istruito e gli aveva regalato i più bei giocattoli che la sua officina fosse capace di produrre, anche quando non era natale.

Il piccolo, occhi azzurri e zazzera bionda, era vispo e allegro, sempre pronto a giocare, ma anche ad ascoltare tutti i racconti e le lezioni. Sebbene avesse solo sei anni aveva cominciato a dare una mano nella bottega, incaricandosi delle incombenze più leggere e dando consigli sui nuovi giocattoli da costruire.

Gli piaceva stare lì e dedicarsi a quelle attività ma spesso, la sera, nel caldo del suo lettino, la sua mente andava agli altri bimbi, quelli che ricevevano i giocattoli che si costruivano in quella fucina. Loro avevano meno giochi, ma godevano delle cure e dell’amore di una mamma e di un papà veri, diversi dal suo Babbo Natale, amorevole e affettuoso certamente, ma troppo occupato a far felici tutti i pargoli del mondo per potersi dedicare completamente a lui.

Soprattutto sognava una mamma. Una di quelle che vedeva nelle pubblicità della TV. Quelle che portavano in tavola una zuppiera di brodo o della semplice carne in scatola, ma sempre con un gran sorriso sulle labbra e con tanto amore nel cuore. A volte aveva pianto pensando a quella mamma che non aveva.

In quei giorni poi, Babbo Natale lo aveva visto ben poco. Era ormai la vigilia e c’era stato tanto da fare. Montare i giocattoli, provarne il funzionamento, accomodare quelli difettosi o addirittura sostituirli se non recuperabili, impacchettarli ed etichettarli, stando attenti che corrispondessero a quanto il bambino bravo aveva richiesto nella sua letterina. Insomma, quel luogo si era animato di gente che, presa dal lavoro, non era neanche in grado di scambiarsi un saluto. Per fortuna, di lì a qualche giorno, tutto sarebbe passato e le cure amorevoli del suo padre adottivo sarebbero ritornate.

Come l’anno precedente, Babbo Natale aveva deciso di portarlo con sé in giro per il mondo a consegnare le strenne. Gli destava preoccupazione il fatto di doverlo lasciare a casa mentre, a bordo della sua slitta, solcava i cieli in lungo e in largo. L’ultima volta che lo aveva fatto era stato tutta la notte in pensiero e aveva consegnato i doni distrattamente, combinando dei guai notevoli. Aveva regalato delle bambole ai maschietti, armi giocattolo e macchinine alle ragazzine, dei bei ciucci colorati ai dodicenni e addirittura del carbone a chi era stato bravissimo. Lo avrebbe portato con sé anche stavolta.

Consumarono rapidamente la cena e di corsa si recarono alla slitta che gli elfi stavano caricando di doni. Babbo Natale chiamò per nome tutte le renne: Dasher, Dancer, Prancer, Vixen, Comet, Cupid, Donder e Blitzen. In particolare si trattenne un po’ a coccolare Rudolph, la piccola renna il cui naso diveniva sempre più rosso, in seguito all’emozione. Le attendeva un grosso lavoro quella notte e il vecchio sapeva che sarebbero tornate a Rovaniemi esauste per i tanti chilometri da percorrere e per i vari cambiamenti climatici che, in poche ore, avrebbero dovuto affrontare.

Salirono a bordo e, dopo un cenno di saluto a tutti gli elfi, si avviarono a briglia sciolta per i cieli del mondo. Si dedicarono dapprima alla distribuzione dei doni all’Oriente, dove il giorno inizia e finisce prima, i cui bimbi in poche ore furono soddisfatti e felici; quindi si recarono in Australia e Nuova Zelanda, nazioni che a natale hanno il clima estivo; poi si volsero verso l’Africa e l’Europa.

Mentre viaggiavano e distribuivano pacchi e pacchetti, la mente di Jari andava sempre ad una terra meravigliosa. L’aveva vista dal cielo l’anno precedente e se ne era innamorato. Un’isola circondata da un mare azzurro e trasparente, che ne bacia le spiagge di sabbia bianca. Nonostante fosse inverno, quella terra gli regalava un bel tepore, dovuto non solo al clima mite che il Signore le aveva donato, ma anche al calore della sua gente, generosa ed ospitale come nessun’altra al mondo. Al suo interno aveva visto dei verdi pascoli e tanti animali che felici si cibavano della sua erba. Ricordava i dipinti che abbellivano le mura in tante case nei paesi più piccoli e un triangolino tricolore che, come un tatuaggio indelebile, impreziosiva la città più grande e più bella.

Giunsero in Italia e l’ansia di rivedere quella terra crebbe sempre più nel cuore del piccolo Jari. Eccola, finalmente! La vedeva distintamente. Non era cambiata affatto in 12 mesi e non era cambiata l’attrazione che esercitava su di lui. Il cielo sull’isola, in quella notte di festa, era pervaso da profumi soavi. Seadas, amaretti, pardule e sospiri, stimolavano il suo palato e le sue ghiandole salivari: “che fortuna hanno i bambini nati in questo paradiso!” disse.

Babbo Natale ogni tanto lo guardava cercando di interpretare i suoi pensieri. Quel sorriso che vedeva sul suo volto quando, sporgendosi dalla slitta guardava giù, voleva sicuramente dire qualcosa. Sorvolarono un paesino nell’entroterra, non troppo lontano dalla costa occidentale. Distribuirono doni a tutti i bimbi. Poi sorvolarono una casetta posta in periferia e si resero conto che nessuna letterina era giunta da lì: “anche quest’anno non c’è nessun bambino in quella casa” – pensò Santa Claus.

Il comignolo non emetteva fumo. Non c’era aria di festa all’interno. Un uomo ed una donna, in quella festa dedicata soprattutto ai bambini, non avevano nessuno da festeggiare. Avrebbero tanto voluto un pargolo per cui comporre il presepe ed addobbare l’albero da circondare di giocattoli. Invece erano lì, soli, a recriminare sulla impossibilità di avere un figlio. Neanche il tribunale dei minori, disperso nei meandri della burocrazia, aveva potuto donare loro un erede.

Come contrastava, quell’atmosfera triste, con la gioia che pervadeva tutte le altre case di Gonnostramatza. Una lacrima scese sul volto di Jari, che si sporgeva sempre più dalla slitta per osservare. Forse involontariamente, o forse conscio di ciò che stesse facendo, Babbo Natale virò all’improvviso e il piccolo finnico, già in posizione precaria, cadde finendo dritto dritto nel comignolo di quella casa. Fece un ruzzolone finendo nel camino, circondato da una nuvola di fuliggine che diede un po’ di colore ai suoi capelli ed alla sua carnagione chiara. Non si fece male perché proprio lì sotto era stata sistemata una morbida cuccia per Tommy, il cagnolino di casa.

Istintivamente, nel vedere quella bella signora così sorpresa e spaventata, e pensando al suo sogno di avere dei genitori esclamò: “mamma, mi ha portato per voi Babbo Natale!” e sorrise.

Lina ed Enzo sorrisero a loro volta e subito lo abbracciarono e al tempo stesso si abbracciarono. In quel momento Il piccolo si sentì parte di una famiglia. Enzo pensò che però mancava qualcosa perché quello potesse essere a tutti gli effetti il loro figlio. Non finì nemmeno di pensarci che dal camino cadde un plico, rotolando fino ai suoi piedi. Srotolò quelle carte e scoprì che erano i documenti relativi all’adozione di quel bimbo, che sulle carte risultò chiamarsi Federico e che, per un attimo, sfuggì all’abbraccio di Lina per recarsi alla finestra e vedere Babbo Natale allontanarsi agitando la mano in segno di saluto.