Parigi. Rue de la Roquette. Un giorno qualsiasi. Una pioggia qualsiasi. Maxim era sceso a mangiare sotto casa dalla Dorà, che in realtà si chiamava Dora ed era italianissima, come lui del resto, ma i loro rispettivi nomi venivano francesizzati dagli indigeni, per preteso e giammai sottinteso affrancamento da qualsiasi lingua diversa da quella nazionale. La Dorà non era li, i suoi Potos invece sì.
Quelli non andavano mai via, anzi, crescevano e aumentavano di numero. Per Maxim una vera persecuzione, da quando ne aveva regalato un rametto alla sconsolata “vedova bianca” conosciuta pochi mesi prima. Sconsolata al punto che nemmeno gli orgasmi multipli per cui Maxim si prodigava generosamente, senza nulla a pretendere, riuscivano a riportarla in vita.
Nemmeno offrendoglieli in punta di dita e carezze di labbra accompagnate, leggere, dalla sua lingua. Niente. Non c’era verso di tirarla fuori dal quel pozzo profondo. Immerso in questi pensieri, allucinati dalla fame pressante per l’attesa, più lunga del solito, era lì lì per alzarsi e andar via quando finalmente arrivò il piatto ordinato: tonnarelli radicchio e gorgonzola. Una vera delizia per il suo palato e un toccasana per l’umore: l’amarognolo del radicchio era infatti zucchero al confronto dell’amaro contenuto nei suoi turbamenti wertheriani.
Dopo mangiato, si sentì ispirato a fare la sua solita lunga passeggiata benefica, nella speranza di digerire i suoi indigesti pensieri. La pioggia era fitta, incalzante e suggellava alla perfezione il suo desiderio di solitudine. Bene! A quel punto aveva solo bisogno di pace e silenzio assoluto. Un silenzio tombale! Così le sue gambe si diressero verso il monumentale Père Lachaise, lì vicino.
Gli tornarono in mente le stesse passeggiate all’altrettanto monumentale Verano di Roma, dove, tutte le volte, attraversando la zona del cimitero ebraico, chiedeva ai suoi abitanti perdono per il male fatto loro da un suo illustre antenato. La speranza che lo ascoltassero non lo abbandonava mai. Appena entrato nel Père Lachaise, la pioggia smise di tamburellare. Il cimitero era completamente vuoto, come sempre a quell’ora, ma stavolta erano assenti persino i custodi, che di solito stazionavano nei pressi dell’ingresso, per eventuali richieste di aiuto da parte dei turisti.
Maxim, dato l’umore, andò direttamente da Rossini. Il burbero Gioacchino, con il suo carattere esuberante, amante dei piaceri del vivere, dal cibo alle belle donne, oltre che paladino del buon umore, era quello giusto per farci due chiacchiere. Il buon Friederick Chopin avrebbe dovuto fare a meno di Maxim. Questa occasione avrebbe solo peggiorato l’intimo suo turbamento.
Esternando le sue riflessioni al “Barbiere di Siviglia” ebbe di ritorno decisivi ed ottimi consigli, tant’è che il grigio dei suoi pensieri svanì insieme a quello del cielo, che si produsse in un azzurro terso e intenso, abbagliante e atto a rendere la grigia Paris di quel giorno la Ville Lumière di sempre. Il sole discreto ma possente, faceva capolino tra la vegetazione e i monumenti funerari, a volte anche loro possenti.
Ritrovato il giusto umore, Maxim sentì che un saluto al grande pianista e compositore avrebbe rimesso in equilibrio l’afflato romantico che gli era sempre necessario per sentirsi vivo. Giunto lì, i lacci di una scarpa si misero in libertà. Si piegò in avanti e poggiò il piede sul gradino laterale della tomba, per rimettere in riga gli impertinenti. Detto fatto, si raddrizzò e, girandosi, si trovò di fronte lei, la “vedova bianca”. Non le diede il tempo di aprire bocca. Vi poggiò sopra il suo indice destro, steso come a dire, in un sussurro: Shh! Zitta! Con quella stessa mano andò a intrecciarle le dita.
Restarono così per un tempo indefinito, un Lento senza ritmo, guardandosi negli occhi. Al Lento seguì un Adagio di lui che alzò lentamente e con delicatezza poggiò le mani intrecciate sul suo sterno. Intercorse qualche respiro profondo. Gli sguardi ancora fusi e in osmosi, nel silenzio più assoluto, davvero tombale e misterioso. Fu un attimo e lei lentamente, aiutandosi con l’altra mano libera, portò quella di lui sul proprio sterno girandosi a offrirgli le spalle. In un più che Lento piuttosto Grave lo spinse con grazia fino ad infilarsi, entrambi avvinghiati, sotto quella specie di capanno naturale, tra la tomba di Chopin e di Michel Petrucciani, che è lì a fianco. Un piccolo antro che si era formato spontaneamente nel tempo, grazie ad un Potos ormai gigantesco, cresciuto e arrampicatosi tutto intorno a partire da un grosso albero secco, a proteggere, complice, la futura enfasi dei due amanti.
Con grazia infilò la mano di Maxim nell’apertura della camicetta, lasciandogli la punta della dita tra la morbida carne e l’orlo in pizzi del reggiseno. Poi abbandonò la mano sull’avambraccio di lui, che dolcemente avanzò fino a sfiorarle il capezzolo turgido con l’indice e il medio. In un Molto Moderato, fece roteare attorno ad esso i polpastrelli delle dita e iniziò ad odorare profondamente sul suo collo, sfiorandone con le labbra la pelle morbida e sottile, per poi scendere, leccando appena, fino alla conca fra le clavicole e risalendo, quasi impercettibile, fino al mento. Lei gli prese la mano destra sul dorso e la infilò con decisione nell’apertura laterale della gonna, portandola sul monte di venere dove la lasciò libera.
Maxim, tenendola leggermente a conca, la mosse fino a sfiorare il clitoride e li si fermò. Lei prese a sussultare più volte inframmezzando con respiri profondi, vibranti, in un sommesso piacere. Ebbe almeno tre orgasmi. Egli tenne il suo ancora in sella fermo, sospeso in punta, assaporando già il momento in cui lo avrebbe lasciato prima galoppare libero e poi fatto esplodere quando avessero raggiunto casa. Gli amici ebrei del Verano lo avevano finalmente ascoltato!