MASSIMO UNO E TRINO
di Alfredo Padalino
Il dialogo finale di “Ricomincio da tre” fornisce una chiave di lettura inedita dell’intera opera cinematografica di Massimo Troisi e delle precedenti esperienze cabarettistiche maturate nel gruppo “La Smorfia”, non a caso, forse, composto da tre attori.
La sua comicità ribalta dall’interno i luoghi comuni sul carattere dei partenopei, attraverso continue imboscate divertenti contro la religiosità popolare vissuta all’ombra del Vesuvio, schermaglie verbali che prendono di mira il pantheon napoletano con le armi della commedia all’italiana, anche se riveduta e corretta.
Tanti sono i riferimenti critici alle narrazioni bibliche e agiografiche, dall’Annunciazione all’Arca di Noè, dal miracolo di San Gennaro al San Francesco che parla agli uccelli; una lettura complessiva e mirata di questo intreccio di sketch e scene esilaranti, evidenzia dopo quattro decadi una sorta di rielaborazione laica, proiettata sul grande schermo, del proprio vissuto individuale formatosi, tuttavia, in un contesto territoriale così pregno di mentalità cattolica.
Gaetano è un ragazzo di ventisei anni timido e malinconico, insoddisfatto della sua condizione esistenziale, che si trascina indolente nella provincia campana, a San Giorgio a Cremano, un luogo troppo angusto per racchiudere una personalità inquieta e piena di dubbi, dove gli stereotipi di cui si è nutrito sono il primo bersaglio della sua ironia salace; medita di fuggire più che dal Sud da se stesso, ma non per approdare nel Triangolo industriale ormai in crisi di ristrutturazione, e neppure nel centro di gravità permanente della politica, straziato dal terrorismo sanguinario.
Non a caso la pellicola d’esordio di Massimo Troisi segue di pochi mesi la marcia dei 40 mila colletti bianchi di Torino e il devastante terremoto in Irpinia, un sisma che resta sullo sfondo in alcune immagini iniziali.
La nuova Terra Promessa del singolo meridionale errante è adesso la culla del Rinascimento, Firenze, là dove vive da anni la zia Antonia, punto d’appoggio su cui ricominciare da almeno tre cose ben fatte, una sorta di prima accoglienza parentale che, però, evapora in fretta a vantaggio di una ricollocazione abitativa inaspettata quanto gravida di conseguenze relazionali ambivalenti.
Anche l’incontro con il predicatore americano Frankie stimola in varie occasioni la sua verve anticonformista, che disegna bozzetti sapidi di un’ermeneutica biblica irriverente, trasfusa anche in contesti informali sotto la specie della colloquialità: come quando una sera, conversando con un’amica, s’imbatte nella figura cruciale di Giuda, il dodicesimo apostolo, uno dei personaggi più interessanti della letteratura sacra, la cui lunga storia esegetica va dallo Gnosticismo fino al musical “Jesus Christ Superstar”.
L’alter ego cinematografico di Troisi non fa che riadattarne l’interpretazione controversa, presentando il traditore più infame di ogni tempo – che Dante pone nelle bocche di Lucifero – alla stregua di un povero cristo che si arrabatta per sbarcare il lunario con moglie e figli a carico.
Il nostro Gaetano non giudica senza conoscere i fatti, magari l’Iscariota intendeva soltanto assicurare un futuro decoroso ai suoi cari, in cambio di appena trenta denari; ma quel gesto così decisivo e fatale nella sceneggiatura teologica dell’Occidente viene capovolto, rivisto al contrario, mettendosi nei panni dell’uomo più odiato della cristianità, fino a giustificarne il comportamento in base a motivazioni di ordine sociale.
È un Troisi libertario e di sinistra, pertanto, dalla parte degli ultimi, che strizza l’occhio a De Andrè, e volto a sostenere che molta della cattiveria umana sarebbe evitabile, se solo gli individui fossero inseriti in ambienti facoltosi.
Non bisogna dimenticare, inoltre, le sequenze comiche che offrono un micro spaccato dell’Italia del tempo. Da un lato vi è il rigetto derisorio della religiosità stantia di matrice barocca, dall’altro si affaccia in Gaetano una fascinazione già postmoderna verso il paranormale, allora molto in voga in seguito all’ondata pseudoscientifica e pop impersonata dal mago televisivo Giucas Casella, che si andava a sovrapporre a quella orientaleggiante ed elitaria della incipiente New Age.
Troisi tratta il fenomeno in maniera ancora una volta spiazzante, spogliandolo di qualsiasi valenza spiritualistica modaiola: l’esperimento di psicocinesi volto a spostare un vaso con la sola forza del pensiero, ha il solo fine pragmatico e utilitaristico di risolvere definitivamente i problemi economici del suo antieroe.
Non ci si affida più alle preghiere devozionali recitate dai genitori, imploranti miracoli di santi o madonne che non potranno mai far ricrescere un arto; il nuovo orizzonte di senso è circoscritto alla vita quotidiana e profana, scevro da rimandi alti e trascendenti; questi anzi, dove richiamati, assumono il ruolo di contrappunto polemico, di antitesi antropologica da confutare con un sorriso amaro, per sostenere, invece, la propria visione del mondo secolarizzata, in cui perfino l’intervento straordinario e prodigioso è ricondotto, piuttosto, alle sue mere origini naturali che ciascuno, tuttavia, può disvelare a se stesso e usare come meglio crede.
Quanto poi alla sua personale Renaissance, Gaetano la incardina su una Betlemme che è già Nazareth, una ripartenza a tre insieme a Marta e al bimbo in arrivo. È la triade archetipica, la sacra famiglia desacralizzata, dove il protagonista è un San Giuseppe redivivo che accetta per amore di reputarsi padre di una creatura non sua. Quel che resta del focolare domestico ritratto dal teatro eduardiano di casa Cupiello o della Napoli milionaria, viene adesso ricostruito con fatica e generosità dall’ex garzone impacciato e dall’infermiera colta ed emancipata.
L’intreccio narrativo si dipana così nella ricerca di un modus vivendi, come desiderio di libertà da qualcosa che si acquieta soltanto nell’amore incondizionato, l’eros che si fa apage, il contenuto del messaggio evangelico, il comandamento supremo della caritas, a cui San Paolo eleverà un celebre inno nella Prima lettera ai Corinzi.
Come il suo omologo della stirpe di David, anche Gaetano asseconda una voce interiore e misteriosa, che gli ingiunge di non ripudiare quella donna visitata intimamente da un estraneo, bensì di abbracciarla, proseguendo con lei il proprio cammino verso il futuro. L’assenso conclusivo è implicito, camuffato nelle pieghe di un dialogo memorabile sul nome da imporre al nascituro: non Massimiliano né Ugo, ma piuttosto Ciro, un nome attinto dalla tradizione meridionale, bisillabo di quattro lettere, come quello italiano del giovane rabbi galileo. L’etimologia di Ciro è tuttavia incerta, eppure molti linguisti ipotizzano che la sua traslitterazione greca Kyros dall’antico persiano Kūrush, sia stata influenzata dal sostantivo Kyrios, il Signore terreno e dei cieli, in latino Dominus.
La scelta del nome è di fondamentale importanza per le culture antiche, specialmente per quella ebraica dove lo stesso Jahvè crea il mondo attraverso il flatus vocis; come rilevava, infatti, il filosofo Emmanuel Lévinas, il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe si manifesta attraverso l’ascolto (shemà Israel), a differenza della metafisica ellenica che privilegia invece la visione, le forme sostanziali e astratte, chiamate da Platone, idee.
La rilevanza del canale auditivo nel monoteismo biblico si trasfonde anche negli scritti attribuiti a Giovanni nel Nuovo Testamento, dove in effetti, il Logos/Verbo è la parola per antonomasia, che s’incarna in un’epoca ben precisa, sotto l’imperatore Augusto, patisce e si fa crocifiggere per redimere l’umanità.
Non sappiamo, comunque, se Massimo Troisi avesse ben chiaro tutto questo, mentre elaborava il suo formidabile debutto su pellicola, ma possiamo congetturare che egli intendesse comunicare al suo pubblico una verità molto più semplice e diretta: ciascuno di noi può avvertire l’impulso a cambiare itinerario e a intraprenderne di sconosciuti, a volte e per brevi tratti, a bordo anche di auto guidate da psicopatici, come il personaggio caratterizzato nel film da Michele Mirabella: commettiamo sbagli per avventatezza o pigrizia, per vigliaccheria o temerarietà, e quando ne prendiamo coscienza, accartocciamo le mappe stradali ormai inutili, conferendole nel cassonetto differenziato dell’esperienza altrui, che facciamo nostra e chiamiamo storia.
Provando e riprovando, possiamo smettere infine i costumi sgargianti di credenze anacronistiche, per indossarne di sobri e dai colori traslucidi grazie ai quali, dopo aver grattato via fronzoli e orpelli, si può riscoprire il cuore sacro degli esseri umani, senza ricorrere necessariamente alle favole incantevoli e consolatorie inventate migliaia di anni fa dai profeti disarmati. Gli adulti di oggi credono, piuttosto, in favole iperrealistiche, con meno effetti speciali, puntando al nocciolo duro di qualsiasi confessione universale, l’amore, che l’artista partenopeo scomparso nel 1994 riprende in modo inedito su celluloide, seminandolo in campi fertili di speranza in nome del figlio, terzo vertice in movimento di una relazione sentimentale che completa il numero perfetto, ricominciando da Marta, Gaetano e Ciro, ilSignore terreno e dei cieli.